L’AIUTO: TRA ARROGANZA E PRESUNZIONE. Di Elena DDV Dragotto
«Lasciate cadere ciò che vuole cadere; se lo trattenete, vi trascinerà con sé. Esiste un vero amore che non si occupa del prossimo.» (C.G.Jung – Libro Rosso, p.245)
Mi sono imbattuta in questo breve articolo “Dare aiuto al prossimo: l’illusione moderna. Non puoi intervenire sull’Altro, ma su di te”, di estratti da diversi libri di Carl Gustav Jung che mi hanno ispirato alcune riflessioni.
Condivido pienamente l’assunto qui esposto, sia per quanto riguarda le relazioni personali che per quelle professionali.
Nella Scuola di counseling Voice Dialogue del mio Istituto HeskaiHer, arriva un momento in cui esplicito questa regola: non si può aiutare qualcuno che non vuole essere aiutato. Per diversi motivi.
Per non creare una dinamica Salvatore/Vittima, che nel corso del percorso di counseling spesso ci si scambia tra counselor e cliente, e non fa altro che confermare l’impotenza sia del cliente, in quanto incapace di vivere meglio; e del counselor, in quanto incapace di far stare bene il cliente.
Inoltre, è ridicolo pensare che, come ultimi arrivati nella vita del cliente, possiamo sapere cosa è meglio o giusto per lui. E non basta non “dare consigli”, come viene sottolineato costantemente ai counselor, ma soprattutto è necessario arrendersi al limite del cliente stesso di ricevere aiuto.
Quale arroganza, e questo anche nelle relazioni personali, sapere cosa possa essere giusto per l’altro o cosa dovrebbe fare per stare meglio. E’ vero, siamo inondati da manuali che ci dicono cosa dobbiamo fare per: trovare l’anima gemella, essere eternamente felici, lasciare andare le ferite e perdonare, far funzionare una relazione, ecc. Ma quanti di coloro i quali hanno comprato questi manuali, (me compresa, sigh!), li hanno realmente praticati e ne hanno tratto i benefici suggeriti? Il più delle volte alimentano un senso di frustrazione e di impossibilità, oppure una fede cieca nella meccanicità della crescita personale. Entrambe le reazioni conducono al fallimento.
Nella mia pratica professionale sempre più ho dovuto abbandonare l’identificazione con il mio Sé Salvatore e con il mio Sé Savonarola. L’uno, che vorrebbe “salvare il mondo, non essendo riuscito a salvare i propri genitori”, come anni fa commentò Bert Hellinger, ideatore delle costellazioni familiari, a proposito degli operatori della relazione d’aiuto; e l’altro, che dal suo piedistallo sputa sentenze su ciò che non va negli altri e nella società, auspicando l’assunzione del suo modello di mondo e di essere umano “evoluto”.
Pensare di avere la chiave di lettura “giusta” è purtroppo di parte.
Pensare di poter aiutare gli altri a prescindere da una loro reale richiesta, significa non aver capito che dare aiuto nasce da un’attrazione: attraverso l’aiuto a noi stessi, vale a dire la nostra propria crescita personale, possiamo attrarre nella nostra sfera le persone che realmente stanno richiedendo un aiuto e sentono che insieme a noi possono riceverlo.
Pensare di sapere di cosa ha bisogno l’altro è non fare i conti con l’Intelligenza Organizzatrice dell’Universo, definizione di Hal Stone ideatore della Dinamica dei Sé e del Voice Dialogue, che è in contatto con la Via evolutiva di ciascuno di noi, e accontentarsi della nostra visione limitata.
E’ proprio così Elena, ed è un processo a cui siamo sempre sottoposti noi counselor, fare i conti con il Sé che “deve” saper aiutare, che ha una sua concezione di “aiuto” e che vuole “risolvere”. Quando si parlava con te di umiltà del counselor io la sento in questo accettarsi accettando anche l la parte fallibile ed impotente accettando che l’aiuto che diamo agli altri può andare in direzioni molto diverse da quelle preventivate.
grazie per le tue riflessioni 🙂
Cara Marzia, grazie per il tuo commento e per il tuo apprezzamento e per averli condivisi sul nostro blog. Hai arricchito con le tue ulteriori riflessioni le mie su questo tema così importante.